Domenica 9 marzo è tornato alla Casa del Padre Mario Palmaro, giurista e studioso di bioetica, giornalista e scrittore, firma storica del “Timone”. Mario Palmaro non aveva ancora compiuto 46 anni e lascia la moglie e quattro figli. Il suo amico fraterno Alessandro Gnocchi ha descritto in un bell’articolo, che riportiamo qui oltre, i suoi ultimi giorni di vita terrena. Ci sembra una bella testimonianza di fede.
Sorge dai secoli luminosi e profondi del medioevo quel “Dies irae, dies illa”
che nella Messa tradizionale per i defunti trafigge i cuori e le menti
prima della lettura del Vangelo secondo Giovanni. “Io sono la
risurrezione e la vita” dice nel brano evangelico il Figlio di Dio a
Marta, che piange la morte del fratello Lazzaro. “Chi crede in me, anche
se fosse morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morrà in
eterno. Credi tu questo? Gli rispose: Sì, Signore, io credo che tu sei
il Cristo, Figlio del Dio vivo, che sei venuto in questo mondo”.
La dolcezza maestosa del dialogo trascritto da San Giovanni può essere
compresa solo nel contrappunto del rigore visionario in cui Tommaso da
Celano descrive quel “Dies irae” che “solvet seculum in favilla: teste David cum Sibilla”,
quel giorno dell’ira che dissolverà il secolo in favilla, come attesta
Davide e la Sibilla. Quando il Giudice verrà nel tremore del mondo e la
morte e la natura stupiranno al risorgere di ogni creatura.
E’ questa la vera misericordia che la Chiesa ha incarico di portare al
mondo: mostrare la dolcezza di un Dio intenerito davanti alla morte
dell’amico di cui sarà giudice giusto e inflessibile nel giorno del
giudizio. La Messa tradizionale dei fedeli defunti lo rammenta a ogni
passo reiterando quel “requiem eternam dona eis, Domine” che vola verso il cielo da cuori e menti consci di essere solo momentaneamente su questa sponda.
La mattina del 12 marzo 2014, al funerale di Mario Palmaro, questo
legame invisibile e invincibile tra i vivi e i morti, tra questa e
l’altra sponda, ha preso forma nel nitido e luminoso rigore di una Messa
come si celebrava nei tempi civili. Cantata in latino, con sacerdote,
diacono, suddiacono e ministranti rivolti verso Dio, secondo il rito che
non si lascia violentare dai sentimenti e dai protagonismi.
Mario vi si era preparato fin dal momento in cui i tecnici della
medicina, eretti dal secolo a propri sacerdoti, gli dissero di non avere
scampo. Anche il secolo ha le sue liturgie, riflessi di matematiche
rigorose che, a differenza di quelle celesti, non conoscono speranza.
Per questo ha pensato immediatamente all’epilogo terreno, che avrebbe
dovuto essere abbastanza luminoso da vincere inesorabilmente i riti
mondani. E ha fatto di ogni giorno della sua malattia il passo di un
incedere liturgico verso l’esito finale. Si è incamminato verso il
sacrificio come il sacerdote in sacrestia si avvia a celebrare la Messa
in cui presterà il suo corpo a Cristo sulla Croce. Prima con esitazione,
e poi con una levità che poco aveva di terreno, ha dato ai gesti, ai
pensieri, alle preghiere dei suoi ultimi due anni un tratto nitidamente
rituale. Che non significa algido formalismo, ma adorazione della
grandezza infinita di Dio e, dunque, docile sottomissione al suo volere.
Per questo il suo Calvario è stato così sereno e così edificante per
tutti coloro che vi hanno assistito almeno per un tratto.
Lui si preparava a morire e chi gli voleva bene si preparava ad
accompagnarlo alla morte. Senza dircelo, lo abbiamo fatto dal momento in
cui mi telefonò per dire che proprio non ci sarebbe stato nulla da
fare, salvo un miracolo. Ma una cosa è prepararsi ad accompagnare il tuo
più grande amico alla morte e altro è avviarsi docilmente a morire: il
Signore chiede sempre al migliore il sacrificio più grande.
Impercettibilmente agli occhi del secolo e di tanti cattolici, la vita
di Mario è diventata come quella di un monaco e la sua casa, per quanto
affollata di telefonate, visite e affari quotidiani, si è trasformata in
un piccolo cenobio. Questo padre di famiglia con moglie e quattro figli
ha replicato nella sua vita quotidiana ciò che millecinquecento anni or
sono si era manifestato nel genio religioso di San Benedetto. Il santo
della Regola aveva disegnato un itinerario di santità che prescriveva i
modi e i tempi anche del più piccolo gesto nell’orazione, nel lavoro,
nel riposo, nella ricreazione conferendo loro un significato ulteriore.
Nella medesima maniera, ha salvato le cose, i gesti e le parole della
sua vita quotidiana dall’abbandono al secolo per farne qualche cosa di
sacro, il segno che la sua casa si sarebbe regolata fino in fondo
secondo il volere del Cielo.
Così ha preso a prestare alle realtà un’attenzione che non era solo di
questo mondo e si palesava nella forma di un candore sempre più
inattaccabile. “L’attenzione” scrive Cristina Campo “è il solo cammino
verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti, è solidamente
ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si
manifesta il mistero. (...) Davanti alla realtà l’immaginazione
indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente come
simbolo”.
Questa attenzione al reale, divenuta quasi devozione, portava Mario a
parlare anche del suo male e degli inevitabili esiti con un distacco
incomprensibile ai più. Per trarne giovamento, bisognava coglierne la
radice nella capacità di leggere in qualsiasi frangente della vita
disegni che sono celesti e, dunque, vanno accettati. Più si avvicinava
la fine e più era possibile scorgere nel suo sguardo qualche dardo che
testimoniasse questo dono. “Tali lampi” dice ancora Cristina Campo “non
sono se non quella scintilla (di origine e natura sempre più misteriose
via via che per ogni cosa ci viene fornita una chiave) che l’attenzione
sollecita e prepara: come il parafulmine il fulmine, come la preghiera
il miracolo, come la ricerca di una rima l’ispirazione che proprio da
quella rima potrà sgorgare”.
Il fulmine, il miracolo, l’ispirazione sgorgata da una rima si
manifestavano nelle tante telefonate con cui ci sentivamo ogni giorno,
in uno straziante “Oggi sono contento perché...”. “Ciao Mario, come
va?”, “Oggi sono contento perché...”. Era contento per ogni cosa, ogni
evento, ogni pensiero che avesse anche solo una briciola di importanza.
Perché la chemioterapia lo aveva lasciato in pace un po’ di più, perché
le piaghe ai piedi e alle mani lo facevano tribolare un po’ meno, perché
la moglie Annamaria gli aveva preparato quel tal piatto che gli piaceva
tanto. Venti giorni prima di morire, nella telefonata di rito della
nove di mattina era contento perché aveva trovato un hospice che
lo avrebbe seguito a casa per la terapia del dolore. “Così non devo più
andare in ospedale e non disturbo Annamaria. Sono proprio contento”.
Sono proprio contento: ed era la certificazione che, di lì a poco, a
vista umana, sarebbe finita.
L’occhio profano non poteva vederlo e il cervello mondano non poteva
comprenderlo, ma quegli “Oggi sono contento perché...” erano come i
paramenti di cui il sacerdote si riveste per entrare nell’agone della
Messa, come i panni ricamati che coprono le Sacre Specie. Velature che
la depravazione illuminista penetrata anche dentro la Chiesa considera
come un ostacolo all’intelligenza, e, invece, sono ciò che dà
all’invisibile una forma capace di mostrare all’uomo ciò che altrimenti
non potrebbe percepire”.
E ogni giorno di questo Calvario si è trasformato in un passo
consapevole, accettato e gradito verso il sacrificio. Sempre più lieve e
celeste, come promette l’inizio della Messa che Mario amava ed era
riuscito a portare a Monza, a due passi da casa: “Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”.
Mentre agli occhi degli uomini il suo corpo invecchiava e segnava le
prove e le sofferenze, agli occhi di Dio la sua anima ringiovaniva e
letificava. Ed era proprio questo contrasto a edificare chi gli stava
attorno. Vederlo dal fondo della chiesa, faticosamente inginocchiato al
solito banco, alcune volte, faceva pensare all’uomo che sta per cedere
alle aggressioni della terra. Ma poi, quando tornava dalla comunione,
negli occhi conservava ancora più ravvivato quel lampo di attenzione che
non può cedere a certe brutalità del reale perché ha la chiave celeste
per comprenderle e si lascia raggiungere solo dall’inevitabile.
In quei momenti, sarebbe stato percepibile anche a occhi profani che
quest’uomo di quarantacinque anni si stava avviando a morire così come
professava la sua fede, a morire come aveva pensato, scritto e
insegnato, a morire come era vissuto. In un mondo stanco per la troppa
gente che finisce per credere come vive, Mario ha voluto fino in fondo
vivere come ha creduto. Questo lo ha reso sempre più giovane e lieto
agli occhi di Dio e agli occhi di chi ha saputo guardarlo con almeno un
po’ della sua stessa fede.
Diversamente, nella sua morte si potrebbe leggere solo il capriccio di
una sorte beffarda e crudele. Ma, grazie a Dio, ha ragione il cardinale
Newman quando, nel sermone Sul significato dell’esistenza dice: “A mio
avviso, il termine delusione è l’unico in grado di esprimere quello che
proviamo di fronte alla morte dei santi di Dio. Se la nostra fede non è
abbastanza viva da penetrare al di là della tomba e intuire il futuro,
ci sentiamo depressi per quella che sembra essere una sconfitta della
grandezza. Eppure è proprio da questo sentimento che, come per
contraddizione, riusciamo ad attingere un po’ di speranza, perché se
questa vita è così deludente e così incompiuta, certamente essa non è
tutto”.
Questa morte e questo modo di morire sono tattile e perenne
testimonianza della concretezza della vita eterna, sono sacramento della
certezza che l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma certo non possono
eludere le domande sul perché proprio Mario e proprio in questo modo.
Negli ultimi tempi, in vista della fine, se ne parlava, come sempre con
familiare semplicità. “Mario, tutti pregano per il miracolo e anch’io
spero che tu guarisca. Ma ora riesco solo a pregare perché tu possa
sposare fino in fondo il volere del Signore, qualunque sia... E poi
penso che, se Lui ti vorrà con Sè, lo farà per risparmiarti ciò che
presto si dovrà vedere fuori e, soprattutto, dentro la Chiesa”. “Dici
che sarà davvero così?”, e tremava per la sua Chiesa. “Mario, più prego e
più mi convinco che, se muori, è perché il Signore ti vuole veramente
bene...”.
Un dialogo magari incongruente a orecchi mondani. Eppure, non potevo
avere dubbi su come sarebbe andata a finire da quando un nostro amico
sacerdote mi confidò di avere offerto a Dio la sua vita in cambio di
quella di Mario, ma senza esito, senza risposta. “Io sono un povero
parroco di campagna, conto poco e non ho famiglia. Lui ha moglie,
quattro bambini e sta facendo tanto bene alla Chiesa... Ma,
evidentemente, il Signore ha altri disegni”.
Questa è la comunione dei santi, il vincolo tra chi si ciba dello stesso
corpo e dello stesso sangue, che si alimenta della vita santa di chi
abbraccia la croce. Prima di scrivere queste righe ho chiesto a
quell’amico se potessi rivelarne l’offerta, senza violare la sua
indentità: “Naturalmente” mi ha scritto “anche se non è cosa che meriti
tanto riguardo – lo dico senza finzioni – nei tempi cristiani era cosa
normale”. In qui tempi cristiani che oggi, nell’epoca dello splendore
mediatico, sono completamente evaporati al sole malato del mondo. Forse è
proprio per fecondare questi tempi, così mondani anche dentro la
Chiesa, che il Signore chiede il sacrificio dei suoi figli migliori,
anche se si protestano servi inutili, come ha fatto in tutta sincerità
Mario in uno dei suoi ultimi scritti.
Anche Mario sapeva che sarebbe andata così, lo sapeva prima di tutti e
meglio di tutti. E sentiva che il tempo andava sempre più spedito. Poi
sarebbe venuto il momento supremo e solenne, ma prima avremmo dovuto
salutarci con tutte nostre famiglie. La domenica prima di quella della
sua morte, ha voluto che ci fermassimo a casa sua per cena. Una serata
speciale nella sua normalità. Lui seduto a tavola, al suo posto, a
onorare gli ospiti oltre il possibile, senza un lamento. Solo il vezzo
gentile di mettere in tavola i piatti belli perché quelli di plastica
proprio non andavano. Sapevamo tutti che quella sarebbe stata l’ultima
volta che ci saremmo visti con le famiglie al completo. Lo dicevano gli
sguardi e le attenzioni discrete, che in nulla contrastavano con il
discorrere lieto e sorridente di una domenica sera tra amici che si
vogliono bene.
La settimana dopo, sarei stato in ginocchio accanto al suo letto a recitare le preghiere degli agonizzanti. “Proficiscere,
anima christiana de hoc mundo in nomine Dei Patris omnipotentis, qui te
creavit; in nomine Iesu Christi, Filii Dei vivi, qui pro te passus est,
in nomine Spiritus Sancti, qui in te effusus est, in nomine gloriosae
et sanctae Dei Genitricis Virginis Mariae...”. Parti anima cristiana
da questo mondo in nome di Dio Padre onnipotente... di Gesù Cristo...
dello Spirito Santo... della Vergine Maria...
Nell’agonìa dolorosa e tormentata, ogni tanto riusciva a guardare chi
gli stava attorno. Per chiedere aiuto e consolazione, ma sicuramente
anche per elargirne, per dire che tutto si stava per compiere così come
aveva desiderato e come aveva chiesto al Signore. ”Libera, Domine, animam servi tui ex omnibus periculis inferni, et de laqueis poenarum, et ex omnibus tribulationibus...”
Libera Signore l’anima del tuo servo da tutti i pericoli dell’inferno,
dai lacci delle pene e da tutte le tribolazioni... Come liberasti Enoc
ed Elia... Come liberasti Noè... Come liberasti Abramo... Come liberasti
Giobbe... Come liberasti Isacco... Come liberasti Lot... E poi Mosè,
Daniele, i tre fanciulli, Susanna, Davide, Pietro e Paolo, la beatissima
Tecla. Non rammentare, Signore, le colpe e le ignoranze della sua
gioventù... Gli si aprano i Cieli, si allietino con lui gli Angeli...”.
Sembrano interminabili, le preghiere degli agonizzanti, quando si
leggono nel breviario. Eppure sono un soffio quando le si recita accanto
a un uomo che sta per comparire davanti al giudizio di Cristo per
fargliele stringere in mano come ultimo dono.
Poi, poco dopo le dieci di sera, Annamaria ci ha invitato a intonargli
il “Salve Regina” “che a lui piace tanto”. Con la mamma di Mario e due
vicine di casa lo abbiamo cantato con la certezza che il Cielo ormai
fosse aperto. “... O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria”. Non
c’è stato il tempo di avviare il “Gloria Patri” ed è stato l’ultimo
respiro, proprio come fu per Gilbert Keith Chesterton, dopo il canto
dolcissimo levato da padre McNabb.
Tutto questo per dire come muore un cristiano.
Alessandro Gnocchi
il Foglio 19.03.2014
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