sabato 22 marzo 2014

Gli Amici del Timone di Ferrara ricordano Mario Palmaro

In memoria di Mario Palmaro

“Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa”.


Mario Palmaro è stato senza dubbio un modello di vita e di verità cristiana per tutti, una di quelle persone che è difficile non definire cattolico senza se e senza ma, uno dei migliori studiosi e difensori della fede cattolica nei tempi travagliati in cui viviamo.

Ha lasciato per tutti un eredità di vita testimoniata e letteraria, con i suoi scritti e articoli, di cui tutta la portata la si potrà valutare solamente nei mesi o anni che verranno.  Ci sembra che il modo migliore per ricordare (nel nostro piccolo) il Prof Palmaro, che è stato giornalista, scrittore, docente universitario, sia proprio attraverso le sue parole, i suoi pensieri e le sue riflessioni che rimarranno indelebili nelle menti e nei cuori di tante persone in cammino e in cerca della Verità.
Di seguito riporteremo alcuni scritti di Mario Palmaro che secondo noi rappresentano al meglio il suo concepire la vita… da cattolico vero e il suo amore per la Madre Chiesa e che crediamo potranno aiutare molti a capire meglio chi era questo uomo e cattolico tutto d’un pezzo.


Già ammalato in un’intervista tratta dal “Il Foglio” Palmaro diceva: “Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare. Guardi il Crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa”.

Ed è proprio in quest’ultima frase “Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa” che si coglie in tutta la sua trasparenza e semplicità l’essenza del vero cattolico e la fiducia smisurata nella Chiesa…sempre!
Questo lo si apprezza particolarmente in un altro articolo scritto insieme ad Alessandro Gnocchi in cui affermava: «In qualche chiesetta sperduta ci sarà sempre un sacerdote che celebra santamente la Messa, in un piccolo appartamento una vecchietta solitaria sgranerà sempre con fede incrollabile il suo rosario, in un angolo nascosto del Cottolengo una suora accudirà sempre un bambino considerato da tutti una vita senza valore. Anche quando tutto sembra perduto, la Chiesa, città di Dio, continua a irradiare su quella degli uomini la sua luce».

L’immagine secondo noi più rappresentativa di Mario Palmaro che ne mette in luce l’ essenza è quella che lo ritrae in mezzo alla sua famiglia con sua moglie e i suoi 4 figli, che quasi a difenderlo e sostenerlo lo circondano in un abbraccio di Amore che rafforza, famiglia che rappresenta il suo più grande esempio di vita testimoniata e vissuta.

E vogliamo quindi concludere questa breve memoria proprio con un brano tratto da una intervista pubblicata recentemente sulla Nuova Bussola Quotidiana e contenuta nel libro “Intervista ai maestri – Volume Secondo” (Eidon Edizioni), di Irene Bertoglio  in cui sul suo ruolo di padre dicePer me la preoccupazione maggiore è che un giorno Giacomo, Giuseppe Maria, Giovanna e Benedetto Maria possano smarrire i criteri di giudizio secondo verità, e uniformarsi alla mentalità del mondo. E che siano tentati di abbandonare la Chiesa, la Messa, i sacramenti. E che qualcuno li convinca a dimenticarsi della tradizione, del tesoro ricevuto da chi li ha preceduti. Nel concreto, mia moglie ed io speriamo per loro una vita in cui ci sia sempre la preghiera e la certezza cristiana della resurrezione. E nella quale non ci siano convivenze prematrimoniali, superficialità, disastri matrimoniali, indurimento del cuore. Tutto il resto – il lavoro, la scuola, la ricchezza, il successo – davvero conta poco

Grazie Mario…. Di cuore… che tu possa risplendere nella Gioia eterna del Paradiso!


Gianluca C.
Amici del Timone di Ferrara


Il nome dei figli. Un breve pensiero in ricordo di Mario Palmaro. 

Le persone famose di cui sentiamo parlare, oppure leggiamo i libri o gli articoli, se si ha la fortuna di conoscerle personalmente, per la magia di cui sono fatte le relazioni umane ci conservano un ricordo tutto speciale. L'ho incontrato, Mario,  circa 7 anni fa, nel 2007 , alla giornata del Timone dell'Emilia Romagna. Era con la moglie e i figli, mi feci autografare lo spassosissimo  "Io speriamo che resto cattolico" e scambiai due parole sulla diocesi di Ferrara. "Il Vescovo cerca di unire le associazioni laicali" . E  lui subito una battuta pronta:"Bene, positivo, ma attenti però, che così vi prendono tutti in una volta" col gesto della mano... Che dolore questa morte, che tragedia. Mi sembra di ricordare che con lui e la moglie ci fosse il loro ultimo figlio, Benedetto, nato proprio quando il Papa era Benedetto XVI. Sappiamo che il nome che si da ai figli non viene scelto a caso, vuole riassumere tante cose, la famiglia,  l'appartenenza culturale e religiosa, i miti, la storia, i ricordi importanti. E lui, loro, hanno scelto per il loro bambino il nome del Papa. Gli altri figli avevano tutti nomi che rientravano pienamente nella tradizione cattolica: Giacomo, Giuseppe, Giovanna... Perchè una coppia che fa della fede la propria ragione di vita desidera dare ai figli un nome che la incarni pienamente.   Coraggio quindi, piccolo Benedetto Palmaro: porti un nome e un cognome  importante, il nome del Papa Ratizinger e il cognome di un grande apologeta coraggioso oltre ogni immaginazione  e oltre ogni comodo conformismo. Insomma, un nome carico di fede, tradizione,intelligenza,  cultura, forza, disintersse e nobiltà. E avrai senza dubbio anche tutti i carismi che il tuo genitore, i tuoi genitori, ti hanno trasmesso, anche con la scelta del nome. E come a te, anche ai tuoi fratelli, i cui nomi  ci parlano di apostoli e di Sacra Famiglia. Che Dio vi assista nel portare questa eredità maestosa.

Antonio M.
Amici del TImone Ferrara  


giovedì 20 marzo 2014

Mario Palmaro: come muore un cristiano

Domenica 9 marzo è tornato alla Casa del Padre Mario Palmaro, giurista e studioso di bioetica, giornalista e scrittore, firma storica del “Timone”. Mario Palmaro non aveva ancora compiuto 46 anni e lascia la moglie e quattro figli. Il suo amico fraterno Alessandro Gnocchi ha descritto in un bell’articolo, che riportiamo qui oltre, i suoi ultimi giorni di vita terrena. Ci sembra una bella testimonianza di fede.

Sorge dai secoli luminosi e profondi del medioevo quel “Dies irae, dies illa” che nella Messa tradizionale per i defunti trafigge i cuori e le menti prima della lettura del Vangelo secondo Giovanni. “Io sono la risurrezione e la vita” dice nel brano evangelico il Figlio di Dio a Marta, che piange la morte del fratello Lazzaro. “Chi crede in me, anche se fosse morto, vivrà; e chiunque vive  e crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo? Gli rispose: Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo, che sei venuto in questo mondo”.
La dolcezza maestosa del dialogo trascritto da San Giovanni può essere compresa solo nel contrappunto del rigore visionario in cui Tommaso da Celano descrive quel “Dies irae” che “solvet seculum in favilla: teste David cum Sibilla”, quel giorno dell’ira che dissolverà il secolo in favilla, come attesta Davide e la Sibilla. Quando il Giudice verrà nel tremore del mondo e la morte e la natura stupiranno al risorgere di ogni creatura.
E’ questa la vera misericordia che la Chiesa ha incarico di portare al mondo: mostrare la dolcezza di un Dio intenerito davanti alla morte dell’amico di cui sarà giudice giusto e inflessibile nel giorno del giudizio. La Messa tradizionale dei fedeli defunti lo rammenta a ogni passo reiterando quel “requiem eternam dona eis, Domine” che vola verso il cielo da cuori e menti consci di essere solo momentaneamente su questa sponda.

La mattina del 12 marzo 2014, al funerale di Mario Palmaro, questo legame invisibile e invincibile tra i vivi e i morti, tra questa e l’altra sponda, ha preso forma nel nitido e luminoso rigore di una Messa come si celebrava nei tempi civili. Cantata in latino, con sacerdote, diacono, suddiacono e ministranti rivolti verso Dio, secondo il rito che non si lascia violentare dai sentimenti e dai protagonismi.
Mario vi si era preparato fin dal momento in cui i tecnici della medicina, eretti dal secolo a propri sacerdoti, gli dissero di non avere scampo. Anche il secolo ha le sue liturgie, riflessi di matematiche rigorose che, a differenza di quelle celesti, non conoscono speranza. Per questo ha pensato immediatamente all’epilogo terreno, che avrebbe dovuto essere abbastanza luminoso da vincere inesorabilmente i riti mondani. E ha fatto di ogni giorno della sua malattia il passo di un incedere liturgico verso l’esito finale. Si è incamminato verso il sacrificio come il sacerdote in sacrestia si avvia a celebrare la Messa in cui presterà il suo corpo a Cristo sulla Croce. Prima con esitazione, e poi con una levità che poco aveva di terreno, ha dato ai gesti, ai pensieri, alle preghiere dei suoi ultimi due anni un tratto nitidamente rituale. Che non significa algido formalismo, ma adorazione della grandezza infinita di Dio e, dunque, docile sottomissione al suo volere. Per questo il suo Calvario è stato così sereno e così edificante per tutti coloro che vi hanno assistito almeno per un tratto.
Lui si preparava a morire e chi gli voleva bene si preparava ad accompagnarlo alla morte. Senza dircelo, lo abbiamo fatto dal momento in cui mi telefonò per dire che proprio non ci sarebbe stato nulla da fare, salvo un miracolo. Ma una cosa è prepararsi ad accompagnare il tuo più grande amico alla morte e altro è avviarsi docilmente a morire: il Signore chiede sempre al migliore il sacrificio più grande.

Impercettibilmente agli occhi del secolo e di tanti cattolici, la vita di Mario è diventata come quella di un monaco e la sua casa, per quanto affollata di telefonate, visite e affari quotidiani, si è trasformata in un piccolo cenobio. Questo padre di famiglia con moglie e quattro figli ha replicato nella sua vita quotidiana ciò che millecinquecento anni or sono si era manifestato nel genio religioso di San Benedetto. Il santo della Regola aveva disegnato un itinerario di santità che prescriveva i modi e i tempi anche del più piccolo gesto nell’orazione, nel lavoro, nel riposo, nella ricreazione conferendo loro un significato ulteriore. Nella medesima maniera, ha salvato le cose, i gesti e le parole della sua vita quotidiana dall’abbandono al secolo per farne qualche cosa di sacro, il segno che la sua casa si sarebbe regolata fino in fondo secondo il volere del Cielo.
Così ha preso a prestare alle realtà un’attenzione che non era solo di questo mondo e si palesava nella forma di un candore sempre più inattaccabile. “L’attenzione” scrive Cristina Campo “è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti, è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. (...) Davanti alla realtà l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente come simbolo”.
Questa attenzione al reale, divenuta quasi devozione, portava Mario a parlare anche del suo male e degli inevitabili esiti con un distacco incomprensibile ai più. Per trarne giovamento, bisognava coglierne la radice nella capacità di leggere in qualsiasi frangente della vita disegni che sono celesti e, dunque, vanno accettati. Più si avvicinava la fine e più era possibile scorgere nel suo sguardo qualche dardo che testimoniasse questo dono. “Tali lampi” dice ancora Cristina Campo “non sono se non quella scintilla (di origine e natura sempre più misteriose via via che per ogni cosa ci viene fornita una chiave) che l’attenzione sollecita e prepara: come il parafulmine il fulmine, come la preghiera il miracolo, come la ricerca di una rima l’ispirazione che proprio da quella rima potrà sgorgare”.
Il fulmine, il miracolo, l’ispirazione sgorgata da una rima si manifestavano nelle tante telefonate con cui ci sentivamo ogni giorno, in uno straziante “Oggi sono contento perché...”. “Ciao Mario, come va?”, “Oggi sono contento perché...”. Era contento per ogni cosa, ogni evento, ogni pensiero che avesse anche solo una briciola di importanza. Perché la chemioterapia lo aveva lasciato in pace un po’ di più, perché le piaghe ai piedi e alle mani lo facevano tribolare un po’ meno, perché la moglie Annamaria gli aveva preparato quel tal piatto che gli piaceva tanto. Venti giorni prima di morire, nella telefonata di rito della nove di mattina era contento perché aveva trovato un hospice che lo avrebbe seguito a casa per la terapia del dolore. “Così non devo più andare in ospedale e non disturbo Annamaria. Sono proprio contento”. Sono proprio contento: ed era la certificazione che, di lì a poco, a vista umana, sarebbe finita.
L’occhio profano non poteva vederlo e il cervello mondano non poteva comprenderlo, ma quegli “Oggi sono contento perché...” erano come i paramenti di cui il sacerdote si riveste per entrare nell’agone della Messa, come i panni ricamati che coprono le Sacre Specie. Velature che la depravazione illuminista penetrata anche dentro la Chiesa considera come un ostacolo all’intelligenza, e, invece, sono ciò che dà all’invisibile una forma capace di mostrare all’uomo ciò che altrimenti non potrebbe percepire”.
E ogni giorno di questo Calvario si è trasformato in un passo consapevole, accettato e gradito verso il sacrificio. Sempre più lieve e celeste, come promette l’inizio della Messa che Mario amava ed era riuscito a portare a Monza, a due passi da casa: “Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. Mentre agli occhi degli uomini il suo corpo invecchiava e segnava le prove e le sofferenze, agli occhi di Dio la sua anima ringiovaniva e letificava. Ed era proprio questo contrasto a edificare chi gli stava attorno. Vederlo dal fondo della chiesa, faticosamente inginocchiato al solito banco, alcune volte, faceva pensare all’uomo che sta per cedere alle aggressioni della terra. Ma poi, quando tornava dalla comunione, negli occhi conservava ancora più ravvivato quel lampo di attenzione che non può cedere a certe brutalità del reale perché ha la chiave celeste per comprenderle e si lascia raggiungere solo dall’inevitabile.
In quei momenti, sarebbe stato percepibile anche a occhi profani che quest’uomo di quarantacinque anni si stava avviando a morire così come professava la sua fede, a morire come aveva pensato, scritto e insegnato, a morire come era vissuto. In un mondo stanco per la troppa gente che finisce per credere come vive, Mario ha voluto fino in fondo vivere come ha creduto. Questo lo ha reso sempre più giovane e lieto agli occhi di Dio e agli occhi di chi ha saputo guardarlo con almeno un po’ della sua stessa fede.
Diversamente, nella sua morte si potrebbe leggere solo il capriccio di una sorte beffarda e crudele. Ma, grazie a Dio, ha ragione il cardinale Newman quando, nel sermone Sul significato dell’esistenza dice: “A mio avviso, il termine delusione è l’unico in grado di esprimere quello che proviamo di fronte alla morte dei santi di Dio. Se la nostra fede non è abbastanza viva da penetrare al di là della tomba e intuire il futuro, ci sentiamo depressi per quella che sembra essere una sconfitta della grandezza. Eppure è proprio da questo sentimento che, come per contraddizione, riusciamo ad attingere un po’ di speranza, perché se questa vita è così deludente e così incompiuta, certamente essa non è tutto”.
Questa morte e questo modo di morire sono tattile e perenne testimonianza della concretezza della vita eterna, sono sacramento della certezza che l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma certo non possono eludere le domande sul perché proprio Mario e proprio in questo modo. Negli ultimi tempi, in vista della fine, se ne parlava, come sempre con familiare semplicità. “Mario, tutti pregano per il miracolo e anch’io spero che tu guarisca. Ma ora riesco solo a pregare perché tu possa sposare fino in fondo il volere del Signore, qualunque sia... E poi penso che, se Lui ti vorrà con Sè, lo farà per risparmiarti ciò che presto si dovrà vedere fuori e, soprattutto, dentro la Chiesa”. “Dici che sarà davvero così?”, e tremava per la sua Chiesa. “Mario, più prego e più mi convinco che, se muori, è perché il Signore ti vuole veramente bene...”.
Un dialogo magari incongruente a orecchi mondani. Eppure, non potevo avere dubbi su come sarebbe andata a finire da quando un nostro amico sacerdote mi confidò di avere offerto a Dio la sua vita in cambio di quella di Mario, ma senza esito, senza risposta. “Io sono un povero parroco di campagna, conto poco e non ho famiglia. Lui ha moglie, quattro bambini e sta facendo tanto bene alla Chiesa... Ma, evidentemente, il Signore ha altri disegni”.
Questa è la comunione dei santi, il vincolo tra chi si ciba dello stesso corpo e dello stesso sangue, che si alimenta della vita santa di chi abbraccia la croce. Prima di scrivere queste righe ho chiesto a quell’amico se potessi rivelarne l’offerta, senza violare la sua indentità: “Naturalmente” mi ha scritto “anche se non è cosa che meriti tanto riguardo – lo dico senza finzioni – nei tempi cristiani era cosa normale”. In qui tempi cristiani che oggi, nell’epoca dello splendore mediatico, sono completamente evaporati al sole malato del mondo. Forse è proprio per fecondare questi tempi, così mondani anche dentro la Chiesa, che il Signore chiede il sacrificio dei suoi figli migliori, anche se si protestano servi inutili, come ha fatto in tutta sincerità Mario in uno dei suoi ultimi scritti.
Anche Mario sapeva che sarebbe andata così, lo sapeva prima di tutti e meglio di tutti. E sentiva che il tempo andava sempre più spedito. Poi sarebbe venuto il momento supremo e solenne, ma prima avremmo dovuto salutarci con tutte nostre famiglie. La domenica prima di quella della sua morte, ha voluto che ci fermassimo a casa sua per cena. Una serata speciale nella sua normalità. Lui seduto a tavola, al suo posto, a onorare gli ospiti oltre il possibile, senza un lamento. Solo il vezzo gentile di mettere in tavola i piatti belli perché quelli di plastica proprio non andavano. Sapevamo tutti che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti con le famiglie al completo. Lo dicevano gli sguardi e le attenzioni discrete, che in nulla contrastavano con il discorrere lieto e sorridente di una domenica sera tra amici che si vogliono bene.
La settimana dopo, sarei stato in ginocchio accanto al suo letto a recitare le preghiere degli agonizzanti. “Proficiscere, anima christiana de hoc mundo in nomine Dei Patris omnipotentis, qui te creavit; in nomine Iesu Christi, Filii Dei vivi, qui pro te passus est, in nomine Spiritus Sancti, qui in te effusus est, in nomine gloriosae et sanctae Dei Genitricis Virginis Mariae...”. Parti anima cristiana da questo mondo in nome di Dio Padre onnipotente... di Gesù Cristo... dello Spirito Santo... della Vergine Maria...
Nell’agonìa dolorosa e tormentata, ogni tanto riusciva a guardare chi gli stava attorno. Per chiedere aiuto e consolazione, ma sicuramente anche per elargirne, per dire che tutto si stava per compiere così come aveva desiderato e come aveva chiesto al Signore. ”Libera, Domine, animam servi tui ex omnibus periculis inferni, et de laqueis poenarum, et ex omnibus tribulationibus...” Libera Signore l’anima del tuo servo da tutti i pericoli dell’inferno, dai lacci delle pene e da tutte le tribolazioni... Come liberasti Enoc ed Elia... Come liberasti Noè... Come liberasti Abramo... Come liberasti Giobbe... Come liberasti Isacco... Come liberasti Lot... E poi Mosè, Daniele, i tre fanciulli, Susanna, Davide, Pietro e Paolo, la beatissima Tecla. Non rammentare, Signore, le colpe e le ignoranze della sua gioventù... Gli si aprano i Cieli, si allietino con lui gli Angeli...”. Sembrano interminabili, le preghiere degli agonizzanti, quando si leggono nel breviario. Eppure sono un soffio quando le si recita accanto a un uomo che sta per comparire davanti al giudizio di Cristo per fargliele stringere in mano come ultimo dono.
Poi, poco dopo le dieci di sera, Annamaria ci ha invitato a intonargli il “Salve Regina” “che a lui piace tanto”. Con la mamma di Mario e due vicine di casa lo abbiamo cantato con la certezza che il Cielo ormai fosse aperto. “... O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria”. Non c’è stato il tempo di avviare il “Gloria Patri” ed è stato l’ultimo respiro, proprio come fu per Gilbert Keith Chesterton, dopo il canto dolcissimo levato da padre McNabb.
Tutto questo per dire come muore un cristiano.
Alessandro Gnocchi
il Foglio 19.03.2014

venerdì 7 marzo 2014

Diretta Web dalle ore 21: L'Evangelizzazione della Famiglia

Avv. Giovanni Formicola 

L'evangelizzazione della Famiglia


Diretta web oggi Venerdì 7 Marzo ore 21.00 su questo sito
dal Cinema Teatro Santo Spirito di Ferrara


Link diretto al canale

giovedì 6 marzo 2014

Un evento unico:il Rosario per La Vita in Duomo a Ferrara

Ecco un evento importante nella Quaresima a Ferrara: alcuni sacerdoti, religiosi e suore di diversa provenienza hanno aderito alla proposta di alcuni amici sensibili al tema della vita ed è stato indetto un programma di ben "5" momenti di preghiera per la Vita in Duomo, dalle 17 alle 17.30 di ogni sabato di Quaresima. Insomma, una visibilità davvero centrale, in un orario comodo, presso il Santo Altare della Beata Vergine del Rosario, luogo di storica devozione per tutti i ferraresi. Inizierà Don Stefano Piccinelli, cappellano dell'Ospedale di Cona, noto per aver coraggiosamente espresso la sua posizione Pro Vita e per questo attaccato dal mondo laicista.
Ricordiamo anche la conferenza online di Ven 7 Marzo su l?evangelizzazione della Famiglia tenuta dall'Avv. Giovanni Formicola.